Dolore miofasciale e trigger point

Dolore miofasciale e trigger point: sintomi, cause e trattamenti

Il dolore miofasciale è una condizione problematica che può colpire chiunque, soggetti di qualunque età e in qualsiasi contesto, la cui causa principale è il cosiddetto “trigger point” o, in italiano, “punto grilletto”.

La definizione di “trigger point” è stata introdotta nel 1943 dalla dottoressa Janet Travell per indicare le masse o i noduli dolorosi che si possono percepire all’interno di bande tese del muscolo: quest’ultimo si può immaginare come un insieme di corde che, attraverso la contrazione, muovono i segmenti ossei. Il trigger point può essere inteso come un piccolo nodo su una o più fibre muscolari, percepibile tramite la palpazione, che se stimolato può provocare dolore sia sul punto, sia sulla zona circostante.

La Dottoressa Travell è stata una pioniera nello studio del dolore miofasciale, avvalendosi di una tecnica che prevedeva l’utilizzo di un ago e di una siringa per trapassare e iniettare un farmaco anestetico nella zona fibrosa dove risiedeva il trigger point.

Successivamente, anche Jones si è occupato dell’argomento, riconoscendo nei trigger point le cause di dolori sparsi sul corpo, anche a distanza dal loro punto di origine. Ecco perché quando si accusa un dolore in una determinata parte del corpo è probabilmente necessario trattare trigger point distanti ma, comunque, artefici del disturbo.

Come riconoscere un trigger point

I trigger points si possono facilmente individuare attraverso la palpazione: si manifestano come piccoli chicchi di riso, a volte grandi quanto una nocciolina e, se pressati, scatenano dolore all’istante. Possono trovarsi, come già detto, in diverse parti del corpo presentando caratteristiche comuni:

  • si trovano racchiusi all’interno di una banda tesa del muscolo;
  • il dolore che scatenano non può essere rilevato da un esame neurologico;
  • il dolore non è continuo, anzi, in alcuni momenti tende a scomparire, soprattutto se la zona interessata entra in contatto con una fonte di calore;
  • il dolore miofasciale derivante è spesso distante dalla zona dolorosa primaria;
  • il muscolo che ospita il trigger point ha contrattilità ridotta sulle fibre colpite e, di conseguenza, la sua efficienza si riduce al punto da causare problemi a carico dei muscoli colpiti;
  • se il trigger point è abbastanza grande o se si trova vicino a un nervo o a un vaso potrebbe causare problemi al sistema neurologico o a quello circolatorio;
  • la cute che riveste un nodulo è solitamente più calda del normale.

Data la varietà delle caratteristiche dei singoli trigger point, il ruolo del fisioterapista è fondamentale: è l’unico medico specialista, infatti, ad approcciarsi in modo generale, valutando l’intero contesto e NON focalizzandosi solo ed esclusivamente sul punto dolente. Ad esempio, un paziente che riferisce di avere dolore alla cervicale non verrà trattato solo sui trapezi ma anche sulle spalle dove, probabilmente, risiedono altri trigger points.

Cause principali della formazione dei trigger points

Così come le loro peculiarità, anche le cause scatenanti dei trigger points possono essere diverse e variegate. Le più comuni sono:

  • traumi;
  • uso eccessivo di un muscolo in intensità e/o frequenza;
  • utilizzo di un muscolo “a freddo”;
  • stress;
  • postura errata;
  • effetti collaterali di alcuni farmaci.

Compito del fisioterapista è di compiere un’anamnesi del paziente, valutando ogni singolo aspetto delle sue caratteristiche fisiche e del suo stile di vita, in modo da scovare le possibili origini dei trigger points e, di conseguenza, del dolore.

Terapia dei trigger points

La cura e il trattamento dei trigger points da parte del fisioterapista ha un obiettivo ben preciso: far scomparire il dolore miofasciale. Per ottenere questo risultato, il medico specialista attua una terapia ben precisa che, tendenzialmente, si divide in 3 fasi:

  1. anamnesi: si parla con il paziente in merito al suo dolore, di come e quando insorge, di come e se peggiora. Si approfondisce la sua storia, si discute relativamente alle sue abitudini, al suo lavoro, allo sport praticato. Sono tutte informazioni utili per capire quale possa essere l’origine del trigger point attivo;
  2. test: si procede con una valutazione muscolare, che punta a rilevare una perdita di forza di un muscolo o di un gruppo muscolare, e si esegue una palpazione per scovare le bande tese;
  3. trattamento: è la parte più importante e, se la diagnosi miofasciale è corretta, il dolore dovrebbe scomparire come per magia. Esistono diverse tecniche per trattare e dissipare la banda tesa, ed è compito del fisioterapista scegliere la più adatta alle esigenze del paziente.

Come trattare un trigger point

Le tecniche per curare e trattare un trigger point, quindi, sono diverse ed è il fisioterapista a valutare quale sia la migliore per il paziente. In particolare, può scegliere tra le seguenti:

  • compressione ischemica o digitopressione: è la più veloce e la più utilizzata. Consiste nell’individuare la banda tesa, si preme e si mantiene la pressione fino a quando il dolore non si sia ridotto dell’80%. Nonostante sia un metodo immediato, è faticoso per il fisioterapista, provoca dolore nel paziente e non sempre risolve il problema definitivamente. Di conseguenza, sarà comunque necessario individuare il trigger point corretto rispetto a quello latente che, invece, causa solo la disfunzione indolore nel muscolo colpito e può rimanere asintomatico per anni prima di risvegliarsi a seguito di un trauma o di un sovraccarico;
  • massaggio: è il metodo più antico, quello che permette di manipolare il tessuto muscolare con esiti più o meno positivi. Non deve provocare eccessivo dolore, ma più un fastidio che, a poco a poco, si trasforma in una sorta di “dolore piacevole”. Bisogna aggiungere che, spesso, le tensioni accumulate a livello fisico derivano solitamente dallo stato d’animo del paziente e non solo da errori posturali, quindi potrebbe essere utile lavorare anche sotto il punto di vista psicologico;
  • stretch and spray: consiste in una tecnica che, dopo aver individuato il muscolo disfunzionale, lo pone in allungamento e, una volta raggiunto il massimo grado di estensione, prevede l’applicazione di uno spray a freddo (o ghiaccio spray). Alla fine, si riporta delicatamente in accorciamento. Si tratta di un metodo molto delicato, che il fisioterapista deve valutare accuratamente prima di mettere in pratica;
  • contrazione e rilascio: si procede con la contrazione del muscolo antagonista a quello disfunzionale, con l’obiettivo di ottenere un rilasciamento di quest’ultimo;
  • strumenti IASTM: si tratta di dispositivi con forme e superfici differenti che servono a mobilizzare la fascia, alleggerire il lavoro del fisioterapista e consentire la compressione ischemica in modo più incisivo e profondo;
  • dry needling: prevede l’inserimento di un sottilissimo ago per centrare la banda fibrosa e romperla. Sembra una tecnica dolorosa ma non lo è, in ogni caso bisogna valutare caso per caso prima di procedere;
  • foam roller: consiste in un cilindro compatto rivestito da uno strato gommoso utilizzato solitamente per il fitness ma molto utile per compiere un automassaggio sulla zona desiderata. Permette di lavorare globalmente, quindi la qualità lascia un po’ a desiderare, ma può donare un certo sollievo;
  • laserterapia: il laser è sempre molto utile in caso di trigger points, perché impiega pochissimi minuti per eliminare il dolore. Di contro, non riesce a penetrare in profondità nel tessuto, a meno che non si aumenti la potenza, il che potrebbe provocare dolore e arrossamenti cutanei.

Come già sottolineato, la scelta del trattamento spetta al fisioterapista che, sulla base della storia clinica del paziente e delle sue esigenze specifiche, è l’unico in grado di poter prendere la decisione migliore.

Categoria Articolo: Fisioterapia Parma